Campana Comune di Luino

Buongiorno a tutti.Consentitemi, a premessa di questo mio breve intervento, di ringraziare il signor Sindaco e l’intera Amministrazione Comunale della città di Luino per il gradito invito rivoltomi.
Credetemi, è per me un grande onore, e non voglio nascondere la mia intima emozione: essere qui, nei luoghi a me tanto cari dove affondano le mie radici e la memoria delle assolate estati della mia giovinezza a Voldomino, a condividere con Voi, volti noti e meno noti, questo momento di ricordo, commemorazione e riflessione.
Come è risaputo, e la nostra campana ne vuole essere una sonora testimone, un sottile filo conduttore lega le imprese di Giuseppe Garibaldi, la raggiunta Unità d’Italia e la vittoriosa conclusione della 1^ Guerra Mondiale, quella che fu indicata semplicemente come la “Grande Guerra”, ignari, tutti, che, in seguito, si sarebbe iniziata la numerazione di successivi infausti conflitti mondiali.
E’ passato più di un secolo da quando l’Italia, con il suo ingresso nella “Grande Guerra”, si trovò protagonista in un conflitto che costituì una tragedia di dimensioni sconosciute nella storia dell’umanità.
Una guerra che si rivelò un fenomeno totalizzante, che esondava dagli stretti limiti fino ad allora imposti dai campi di battaglia per investire in pieno il tessuto sociale, sia in termini di partecipazione diretta agli eventi bellici, sia di ampiezza e profondità dello sforzo richiesto ad ogni settore dei Paesi coinvolti.
Contadini, artigiani, studenti, intellettuali, nobili, borghesi, operai lasciarono le proprie attività, le proprie aspirazioni per un destino inaspettato e incerto, per imbracciare un’arma, vivere in una trincea e, molto spesso, perire in un assalto.
Una generazione di Italiani che si ritrovò a formare una compagine armata, un coacervo di volontà, passioni ed intelligenze che, attraverso 1268 giornate di combattimenti, consacrate alla storia con il “Bollettino della Vittoria” del 4 novembre 1918, superò una prova colossale, le cui conseguenze, all’inizio del conflitto, erano difficili da immaginare.
Vorrei, insieme a Voi, soffermarmi su un tema che mi ha sempre appassionato, essendo, anch’io figlio di questa nostra terra di confine: i “confini”. I confini sono l’inizio di ogni guerra.
La guerra li abbatte tutti e l’uomo che la vive travalica ogni suo limite.
Nel contempo, ogni guerra poi si conclude, in genere, con un trattato di pace e la definizione di nuovi altri spesso differenti confini.
Parlare di Grande Guerra, quindi, vuol dire tentare di tracciarne i contorni, afferrarne i confini.
Il suo inizio fu un foglio di carta, una dichiarazione di belligeranza.
La sua fine un brandello di stoffa bianca, macchiato di sangue, a firmare la resa.
Quali e quanti altri limiti racchiusero il conflitto e chi dovette combatterlo?.... Le linee di contatto su un fronte, i solchi delle trincee o, forse, i confini degli Stati belligeranti?
Un singolo gesto insurrezionale, perpetrato nel ventre di un solo impero, provocò l’ostilità di molte Nazioni non direttamente interessate dai primi proclami di guerra.
Di certo, quando l’estate del 1914 aveva appena iniziato a schiudersi, l’ipotesi di un conflitto pareva un’eventualità del tutto remota.
Molti Paesi d’Europa, pur essendo militarmente pronti per affrontare l’evenienza di una guerra, politicamente non avevano né la volontà né l’intenzione di condurla.
Tuttavia, ciascuno di essi poneva limiti e veti ai propri vicini, “confini” fermi e precisi, che considerava irrinunciabili ed intoccabili per gli interessi nazionali.
Queste condizioni andarono ad intrecciarsi ad altrettante “ragioni” nel costruire le corde di una”lunga miccia”, mal celata, che serpeggiò fra gli Stati europei finendo con il collegarli tutti al momento della conflagrazione, quando un giovane di appena vent’anni ebbe l’imprudenza di azionare l’innesco di un invisibile ordigno di cui non sospettava l’enorme portata.
Due colpi di pistola ed ecco divampare l’incendio: ogni Nazione dovette decidere in fretta da che parte schierarsi, con tutte le contraddizioni del caso.
Quando poi si giunse alle trincee, l’anima di ogni soldato si trovò, ancora una volta divisa.
E’ qui che veniamo a scoprire altri confini, quelli maggiormente celati, quelli interiori, quelli che dilaniano le coscienze dei soldati.
Vediamo allora uomini che si battono contro un nemico che faticano a riconoscere tale, scorgendolo fratello al di là della linea di fuoco, anch’esso vittima della guerra, delle durissime condizioni di vita dettate dal combattimento, fratello nella fame, nella sete, nei pidocchi, nemico soltanto per destino.
Al Nord della Penisola, troviamo uomini dal passaporto austriaco ma di lingua e cultura italiana, che decidono di morire per la terra straniera, medaglia d’oro in Italia, traditori della loro patria.
E ancora, italiani all’estero, emigrati in paesi lontanissimi, che decidono di lasciare l’impiego, che è il pane per le proprie famiglie rimaste in Italia, e di attraversare mezzo mondo per tornare a morire qui, con il fucile in pugno, in qualche sperduto anfratto delle Dolomiti.
Tutto per l’Italia.
Infine, uomini che si battono in guerra come leoni, per settimane e settimane impegnati senza tregua nelle trincee proprio in virtù del loro valore; uomini che sono abbattuti nel fisico dalle privazioni, con gli occhi pieni di orrore, di un orrore che devasta l’animo; uomini che alla fine decidono di tirarsi indietro e dire basta, che chiedono tregua, che chiedono riposo.
Uomini che hanno calpestato ogni confine dell’umana sopportazione; uomini che a questo confine si sono arresi, bollati con una parola difficile da pronunciare per chi ha anche solo intuito la misura dell’orrore a cui furono sottoposti: traditori.
L’umana debolezza non viene perdonata in guerra, non può essere perdonata, è la legge del combattimento ad imporlo, tuttavia merita almeno la nostra comprensione ed il nostro riguardo.
Ciò non di meno, al confronto, …. quanto più grande e commovente diventa la forza d’animo che ammiriamo in quanti ebbero il coraggio di resistere nonostante tutto, migliaia e migliaia di eroi silenziosi!
Tanti e innumerevoli sono i confini che riaffiorano dalla storia, sempre fragili, labili, complessi da decifrare, difficili da raccontare, come l’etica che cede alla sopravvivenza o la forza d’animo che si fa grandezza, in nome di una Patria che è terra, casa, famiglia.
Parlare di guerra significa allora andare oltre la fredda riepilogazione di date, scontri, conquiste misurate in esigue porzioni colorate su una vecchia cartina politica i cui confini risultano ormai superati.
Per carpire la portata di un simile evento storico nella sua complessità, non basta l’enunciazione degli accadimenti principali, occorre immergersi nell’epoca in cui il fatto avviene, vestirsi con gli abiti della società del tempo, dotarsi dell’uniforme da combattimento, destreggiarsi con la tecnologia più o meno avanzata del momento, quindi, solo allora, sarà possibile immaginare non solo ciò che avvenne ma come avvenne.
E’ facile, ad esempio, condannare il Gen. Cadorna; molto più complesso è comprendere le sue ragioni, quasi tutte radicate nella sua natura di uomo dell’Ottocento e rendersi pienamente conto che quanto è narrato sui libri di storia non è che una astratta sintesi di quanto un uomo di allora visse e patì.
Accanto alla macro-storia delle Nazioni, c’è quella umana e personalissima di tanti piccoli e grandi protagonisti, frammenti di una realtà narrata senza filtri, vista con occhi sempre diversi.
Il 4 novembre 1918, un foglio di carta, unico tra tanti, calò sull’Italia prostrata dal conflitto a separare la guerra dalla pace.
Era l’ultimo bollettino giunto dal fronte, il numero 1268, un confine fragile, ed al contempo potente, in grado di chiudere il tempo della belligeranza.
Milleduecentosessantasette bollettini prima, l’Italia era entrata nel grande conflitto. E proprio quel 4 novembre, un’intera Nazione trattenne il respiro mentre il comandante supremo Armando Diaz pronunciò finalmente una parola, sognata e agognata da milioni di anime in tanti anni di ferite, una parola soltanto, posta alla fine del secondo capoverso del bollettino 1268: “è finita”!
La lettura del “ Bollettino della Vittoria”, che sancì la fine del conflitto, costituisce, come un fermo-immagine, la memoria dell’istante di pace più alto, assoluto, appena un momento prima che in Italia si inizi a parlare di “vittoria mutilata” e ritorni il dibattito, la polemica, lo scontro ed il malcontento.
Nell’istante in cui fu annunciata la fine del conflitto, gli Italiani, con il ricordo della terribile guerra ancora nel cuore, si strinsero commossi intorno alla propria bandiera, salutando la pace da Nazione forte e soprattutto unita e guardando alla pace come ad una grandiosa conquista.
Ma la 1^ Guerra Mondiale non fu “l’igiene del mondo”, ma un morbo letale che infettò Stati e popolazioni, e la sua fine non generò pace, non sopì gli antichi conflitti, non risolse le annose controversie.
Non concesse benessere economico e prosperità nemmeno ai vincitori, generando tra le popolazioni sfiducia e risentimento.
A partire da quel momento, la guerra divenne sempre più uno stemperato ricordo, un’enorme triste retrospettiva, un fatto avulso e dimentico, perduto nei racconti di una storia che non parla la lingua delle nuove generazioni.
Cento anni sono passati e nessuna voce rimane più a narrare i fatti, non abbiamo più testimoni diretti a colorare, con le parole dell’esperienza e della vita vissuta, i racconti.
Il sipario, ormai, rimane abbassato.
Ai curiosi, ai nostalgici, a coloro a cui la storia sa ancora parlare al cuore e raccontare l’uomo, ad essi rimangono soltanto cimeli, documenti e memorie, tanti fogli di carta, tanti filtri più o meno trasparenti attraverso i quali guardare indietro, rimanendo sulla soglia di un mondo ormai lontano.
Eppure, ricordare quegli eventi non è solo un mero esercizio storico, ma un dovere morale e volgere lo sguardo alla Grande Guerra non significa, peraltro, voler dare risposte ma solo, sommessamente, suggerire percorsi.
Non si intende creare miti, ma guardare con rispetto al sacrificio e non nascondere la morte se questa ci riguarda.
E il nostro pensiero ed il doveroso riconoscimento corre a quei magnifici Cittadini-Soldati che nelle trincee del Carso, sulle sponde del Piave, e sulle cime delle Dolomiti scoprirono il senso dell’unità e della Nazione e concorsero a scrivere la storia del nostro Paese, sacrificando la loro vita o portando, per il resto dei loro giorni, i segni, fisici e morali, palesi o nascosti, delle ferite, delle pressioni e delle violenze di cui furono vittime.
E non dobbiamo assolutamente dimenticare le sofferenze delle popolazioni civili, dei vecchi, delle donne e dei bambini. Questo dei civili e, soprattutto quello delle popolazioni “sfollate”, è un capitolo di storia a parte, fatto di dolore, di incomprensione, di miseria e, per lunghi anni, trascurato dalla memoria storica.
Ecco allora che, di fronte agli uomini e alle donne della Grande Guerra, non possiamo non sentirci tutti più uniti e più fieri di essere Italiani e mi piace pensare che il desiderio di voler approfondire la complessità di quegli avvenimenti torni a stimolare la voglia di sapere delle nuove generazioni, affinché si impegnino a conoscere e serbare nel cuore quanto avvenne in quei giorni, traendone riflessione ed insegnamento.
D’altro canto, e concludo, già san Bernardo, nelle sue “lettere” scriveva: “Beati non quelli che insistono a parole sulla Pace, ma quelli che la rendono possibile”….. e, per l’umanità intera, dimenticare la Guerra significa banalizzare la Pace, e la Pace è la più preziosa conquista, che non ha un confine geografico ma etico e culturale, che va coltivata e salvaguardata giorno per giorno, e …. dimenticare la guerra, ogni guerra, moltiplicatore sempre di lutti e sofferenze, è un privilegio che nessuno si può permettere, … né ieri, né oggi, né mai!
E col pensiero rivolto ancora una volta a tutti i nostri caduti, Viva le nostre Forze Armate!
Viva l’Italia!
Generale Stenio Vecchi